Problemi cognitivi: quando le parole fanno male

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Problemi cognitivi: quando le parole fanno male

27-09-2013 - scritto da Margherita Orsolini

Quando le etichette con cui la legislazione riconosce il diritto all’assistenza, come quella di ritardo mentale, feriscono la dignità dei pazienti. La storia di Gianluca

Gianluca, la sua paura di non essere intelligente e la relazione di una commissione medico-legale

Problemi cognitivi: quando le parole fanno male Sono seduta con Gianluca, è la fine dell’estate e questo striminzito giardinetto di periferia romana sembra ridente. Gianluca è felice di rivedermi, sono la sua “allenatrice” di strategie cognitive. Per un anno abbiamo lavorato con esercizi che un termine alla moda chiama “brain training”, interrompendoci di tanto in tanto per condividere emozioni e pensieri. Alla fine l’ostacolo più grande ha cominciato ad andarsene, come un fantasma sconfitto: la paura di Gianluca di non essere intelligente, di essere anzi proprio un cretino. Che lui abbia un valore, che non ci sia niente di cui vergognarsi, che la sua vita possa essere felice, ancora non ci crede però.

Oggi aspettiamo insieme perché il papà è stato convocato negli uffici di una ASL romana dalla commissione medico-legale che accoglie le richieste per l’applicazione della legge 104, la famosa legge che dà diritto ad un insegnante di sostegno e ad un assegno che viene chiamato “indennità di frequenza”. La famiglia di Gianluca vive con un solo modesto stipendio e l’indennità di frequenza è un piccolo aiuto che non basterà comunque a coprire le spese per una psicoterapeuta e per il “training” con me.

Dopo una lunga attesa siamo convocati nella stanza piccola e disadorna dove si è riunita la commissione medico-legale. Un funzionario medico legge ad alta voce la relazione della ASL di appartenenza di Gianluca: ritardo mentale medio-lieve, deficit di attenzione e iperattività, disturbo depressivo.

Gianluca non sorride più, scoppia in una delle sue risate nervose e interminabili, evita di guardarmi. Precipito anch’io nello sconforto, ecco in pochi minuti distrutto il faticoso lavoro compiuto insieme. Il funzionario non guarda Gianluca, continua a scorrere la relazione, controlla la data, commenta ad alta voce “non è però un handicap gravissimo”.
A Gianluca nessuna domanda e a me che sono la sua psicologa, nessuna richiesta di chiarimento.

Perché i problemi cognitivi di ragazzi come Gianluca vengono definiti da una parola così umiliante come quella di "ritardo mentale"? Viene data un’assistenza mentre si toglie il rispetto e il diritto alla propria dignità.

Ragazzi come Gianluca sono in grado di capire che cosa implica un’etichetta come quella di ritardo mentale (o disabilità intellettiva), sanno che vuol dire non essere intelligenti. Potrei portare tante prove dell’intelligenza di Gianluca. E altrettante prove degli inciampi dei suoi processi cognitivi. Inciampi che potremmo aspettarci dal cervello di un ottantenne intelligente. Ma Gianluca ha sedici anni, e nessuna analisi medica ha mai mostrato un’anomalia cerebrale. Questo succede a molti ragazzi che ricevono la stessa diagnosi di Gianluca.

Le etichette con cui la legislazione riconosce il diritto all’assistenza diventano “carte d’identità”. Per questo le parole andrebbero scelte con maggior cura. Un’etichetta diagnostica entra in un percorso legale di assistenza, nella comunicazione tra neuropsichiatri infantili, psicologi, genitori, insegnanti. E nella comunicazione con la persona stessa che è in difficoltà, con la sua coscienza, con il suo “sé” in sviluppo.

Scusa Gianluca, a nome di una comunità di operatori professionali che non ha ancora capito quanto possiamo fare male con le parole…
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Psiche, psicologia




Margherita Orsolini
Professore di Psicologia dello Sviluppo e dell'Educazione
Responsabile del Servizio di consulenza sulle difficoltà d'apprendimento (tel.06-49917840)
Dipartimento di Psicologia dei processi di Sviluppo e Socializzazione (Tel. 06-49917920)
Via dei Marsi 78, 00185 Roma
www.apprendimi.it



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