Storia e impieghi del fico d'India o Opunzia

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Storia e impieghi del fico d'India o Opunzia

28-07-2014 - scritto da Gabriele Peroni

Un viaggio nella storia della medicina popolare per scoprire le proprietà e gli utilizzi del fico d'India, fino ai giorni nostri

Il fico d'India o Opunzia: come utilizzarlo

Storia e impieghi del fico d'India o Opunzia “La Pasqua infatti era vicina. Le colline erano tornate a vestirsi di verde, e i fichidindia erano di nuovo in fiore”
Giovanni Verga – I Malavoglia: capitolo 8


Laocoonte selvaggio. / Come sei bello / Sotto la mezzaluna! / Multiplo giocar di pelota. / Come sei bello / Quanto minacci il vento! / Dafne e Attis / Conosco il tuo dolore. / Inesplicabile.
Federico Garcia Lorca – Fico d’India


Nome scientifico: Opuntia ficus-indica (L.) Miller
Famiglia: Cactaceae
Nomi volgari: fico d’India, ficodindia, opunzia, nopal.
Etimologia: Opuntia, da Opuntus, città della Focide (Grecia), ove abbondavano le piante succulente; ficus-indica con riferimento alle regioni di provenienza, le “Indie Occidentali”.

Opuntia ficus-indica è specie originaria del Messico, e largamente naturalizzata nell’Italia Meridionale e nelle isole; più rara e, generalmente, solo in coltura più a nord, sulla costa tirrenica fino alla Liguria, cresce tra 0 e 900 m.
Fiorisce da aprile a giugno.

STORIA E TRADIZIONI DEL FICO D'INDIA

Raramente, una pianta ha avuto una storia tanto singolare e affascinante come il fico d’India, fin dal nome, dove India non si riferisce alla nazione asiatica, ma alle “Indie” occidentali, cioè il “Nuovo Mondo”. Proprio in quelle terre, e precisamente in Messico, ha la sua origine questa specie tanto indissolubilmente legata, nell’immaginario, al paesaggio mediterraneo e a quello siciliano in particolare.

Secondo la tradizione fu lo stesso Cristoforo Colombo a portare in Europa il fico d'India, probabilmente sotto forma di frutti essiccati al sole, com’era l’uso delle popolazioni indigene nel periodo in cui non erano disponibili i frutti freschi.
Verosimilmente, il primo autore occidentale a scrivere di Opuntia fu Gonzalo Fernandez Oviedo y Valdés, nel “Sumario de la natural y general historia de las Indias” (1526) e nel “Historia natural y general de las Indias” (1535), in queste opere descrisse alcune specie di questa strana pianta (a occhi europei) presenti a Haiti, Cuba e Giamaica.

De Oviedo, e altri dopo di lui, ha un atteggiamento ambiguo verso questa pianta. Alternando sensazioni tra la meraviglia e la repulsione, l’autore spagnolo, infatti si chiede: “arbore o mostro più tosto fra arbori?”; nello stesso secolo qualcuno ritiene che nel regno vegetale non esiste altra pianta “più selvatica o più brutta”.

I frutti che colorano di rosso le urine suscitano timore, o almeno sospetto, nei primi viaggiatori spagnoli che se ne cibano.
Gli abitanti autoctoni, ovviamente, ben conoscevano, da tempi immemorabili, e apprezzavano questa pianta e i suoi frutti, consumati abitualmente e venduti nei mercati. Semi di Opuntia sono stati ritrovati in campioni di feci umane vecchie di 12.000 anni.

Il fico d'India in America centrale era considerato pianta sacra, addirittura collegata alla nascita della nazione azteca (1325) iniziata sugli altopiani messicani. Secondo la mitologia le tribù nomadi provenienti da nord guidate da una profezia, ebbero l’ordine dal dio Huitzilopochtli di fermarsi nel luogo ove avessero avvistato un’aquila, appollaiata sopra un ficodindia (che sbuca da una fenditura nella roccia), con un serpente nel becco.

L’aquila, simbolo solare, vittoriosa sul serpente, simbolo di morte, posata su una delle piante più importanti dell’economia mesoamericana: l’Opuntia, in grado di fornire cibo per sfamare uomini e animali e medicine per curare.
La capitale dell’impero fu chiamata Tenochtitlàn (ficodindia su una roccia) e diventò l’attuale Città del Messico, sullo stemma della quale compaiono dieci pale di Opuntia.

Anche sulla bandiera nazionale del Messico compare la mitica aquila che ghermisce il serpente con il becco e una zampa, mentre con l’altra zampa si tiene a una pianta di fico d'India.
In lingua nahuatl la pianta era chiamata nopalli da cui è disceso l’odierno nopal.
I “fichi” spesso chiamati tunas erano consumati freschi oppure asciugati al sole per la conservazione.
Alvar Nunez Cabeza de Vaca riferisce, intorno al 1535, che gli indigeni, potevano nutrirsi per tre mesi di soli frutti essiccati.

Le pale (correttamente chiamate cladodi) erano ben conosciute e impiegate come decongestionanti, antinfiammatori; ridotte in poltiglia o liberate dalle spine e dalla cuticola erano applicate in empiastro sulle fratture; per questo motivo la pianta era conosciuta anche come “albero delle saldature”.
Pezzetti della parte interna dei cladodi erano masticati lungamente e inghiottiti contro la gastrite e il dolore allo stomaco. Preparazioni a base di pale erano usate per favorire il travaglio in caso di malposizione fetale. Le giovani pale erano largamente consumate (e tuttora lo sono in Messico) come verdura fresca. I frutti di alcune varietà, ridotti in pasta ed essiccati, erano usati come coloranti.

Ancora oggi, la medicina tradizionale messicana impiega preparazioni di Opuntia, internamente per il trattamento del diabete.
Gli indiani Navaho preparavano l’infuso dei cladodi, poi lo gettavano su pietre arroventate respirando il vapore che si sprigionava, o sottoponendosi a suffumigi, per trattare artrite, cefalee, problemi oftalmici, per aumentarne l’efficacia terapeutica queste procedure erano accompagnate da canti sacri.
La stessa popolazione preparava una bevanda fermentata, con le radici, e la beveva contro le dissenterie.

Pur se preceduta da buona fama, Opunzia fu portata in Europa come pianta ornamentale, curiosa e strana. Con molta probabilità la pianta fu introdotta dapprima in Spagna e più precisamente a Siviglia, ove fin dalla fine del XV secolo esistevano giardini di acclimatazione, dove erano piantate e studiare (soprattutto a scopo farmaceutico o commerciale) le specie provenienti dalle Americhe.

Intorno alla metà del XVI secolo, Lopez de Gòmara descrisse un’Opunzia (probabilmente O. ficus-indica) dando per certa la sua conoscenza in Spagna.
Qualche parola va spesa per la presenza massiccia di Opuntia nel mediterraneo occidentale e in particolare in Sicilia, tanto è famigliare la silhouette di questa pianta da diventare non solo una caratteristica del paesaggio, ma addirittura assurge quasi a simbolo dell’isola; secondo alcuni autori, per i viaggiatori stranieri il fico d'India sottolinea il carattere esotico e semitropicale della Sicilia.

Sembra che, dopo la Spagna meridionale, le prime regioni ove arrivò questa specie furono l’Africa settentrionale (forse portata dagli Arabi dopo la loro cacciata dalla Penisola Iberica) e la Sicilia, per i rapporti politici e commerciali che la legavano, a quel tempo, alla Spagna.

Le ragioni biologiche della diffusione mondiale di Opuntia risiedono, in particolare, nell’eccezionale resistenza alla siccità (la cuticola cerosa delle pale è spessa 5-10 volte più di quella delle altre piante e, contemporaneamente, la particolare anatomia interna dei cladodi permette loro di conservare una notevole riserva d’acqua) e nella grande capacità produttiva.

In Sicilia la pianta trovò un habitat ideale e piacque subito. Inizialmente, i fichi d'India furono impiegati per delimitare e proteggere, anche dal vento, le proprietà; in seguito si apprezzarono i frutti per il consumo umano, poi frutti e cladodi vennero impiegati come alimento per maiali e bovini.

Notevole interesse commerciale ebbe, per secoli, la cocciniglia (o carminio), un colorante estratto dalla lavorazione di un parassita di Opuntia: Dactylopius coccus. La cocciniglia è un insetto dell’ordine degli Emitteri; la femmina, grossa più del doppio del maschio, si fissa per mezzo di un piccolo becco sulle articolazioni spatolari di alcune specie di Opuntia.

Erano queste femmine dell’insetto, lunghe fino a 6 mm, in forma di granello, che erano raccolte presso gli Aztechi, una volta fecondate dal maschio, prima della deposizione delle uova (perchè in quest’epoca erano molto più ricche di materia colorante), raschiando con coltelli i cladodi dell’opunzia in modo da farle cadere o in una ciotola di legno o su un telo di lino steso attorno alla pianta.

Era un prodotto tanto apprezzato alla corte di Montezuma (imperatore azteco, 1466 circa – 1520), da essere richiesto come tributo alle popolazioni sottomesse. Si calcolava di fare tre raccolte di cocciniglia l’anno, ma la prima era la più pregiata: occorrevano circa 160.000 insetti per ottenere un chilogrammo di tintura, ma il potere colorante era da dieci a dodici volte superiore a quello del chermes tradizionalmente usato.

In seguito al successo ottenuto in Europa dal nuovo colorante, la Spagna fece di tutto per mantenere il monopolio della produzione, impedendo l’esportazione di esemplari vivi di cocciniglia e cercando di confondere le idee circa la reale origine del pigmento. Il segreto fu mantenuto fino al 1666, quando il naturalista francese P. Plumier accertò definitivamente la natura del colorante, in seguito studiato approfonditamente dall’olandese De Ruusscher. Il primo cladodo, ancora portante i preziosi parassiti fu contrabbandato fuori dal Messico dal Medico e naturalista francese Thiery de Menoville, nel 1777.

L’allevamento della cocciniglia e, di conseguenza, la coltivazione di varie specie di Opuntia fu tentata in varie parti del mondo, compresa la Sicilia (anche se con scarso successo), e proseguì fino a tempi molto recenti, quando l’uso di questo colorante naturale diventò totalmente antieconomico.
Un paio di decenni fa osservai io stesso, alle isole Canarie, coltivazioni di Opuntia dillenii abbandonate da tempo, ma ancora colonizzate dalla cocciniglia.
Le popolazioni mesoamericane impiegavano la cocciniglia anche come medicinale, come cordiale, sudorifero, contro le febbri maligne e petecchiali e nelle affezioni cutanee.

Già nella seconda metà del ’500, il nostro Pier Andrea Mattioli inserisce l’opunzia nel suo “I Discorsi”, arricchendo la monografia nelle edizioni successive. Innanzi tutto tratta dei Fichi Indiani descritti da Teofrasto, Strabone e Plinio, identificandoli correttamente come specie orientali di Ficus (F. benghalensis L., F. benjamina L., F. religiosa L, ecc.), successivamente, distingue: “Ma è questo (il fico d'India) differente l’altro Fico Indiano, che s’è portato à i nostri tempi dalle Indie occidentali, imperò che questo non ha ne nel tronco, ne ne i rami, ne nelle foglie, ne ne i frutti somiglianza veruna con il su detto. I frutti di questo chiamano gl’Indiani TUNE ”.

Più avanti scrive una nota curiosa e interessante: “La pianta de i quali crederei io, che non sia altro, che la OPUNTIA di Plinio cosi chiamata per nascere intorno à Opunte come scrive Theofrasto con queste parole. Simile al Fico Indiano, anzi più maraviglioso è quella pianta, che nasce intorno à Oponte, e genera le radici dalle foglie, à cui è dato dalla natura, che si mangino i suoi frutti, per esser eglino soavi. Imperò che, come si vede manifestatamente da noi, spiccandosene una foglia dall’albero, e piantandosi a terra fin al mezo, non solamente fa le radici, ma in breve tempo mette fuori le foglie, di modo che con quest’ordine nascendo le foglie dalle foglie, se ne cresce questa pianta, come albero, senza tronco, senza rami, e senza germini...di modo che si può questa pianta connumerare meritatamente fra i miracoli di natura”.

Mattioli aggiunge di averne avuto in dono “Una foglia con tre frutti in cima non ancora maturi...portata dalla Provenza a Vienna ” da M. Angelo Crotto, Agente del Conte di Fiesco presso l’Imperatore Ferdinando I; e una pianta intera dal semplicista M. Giulio Moderato da Rimini, segno che Opuntia era piuttosto nota in Europa dopo pochi anni dalla scoperta.

Può essere interessante notare che l’edizione veneziana del 1557 de “I Discorsi” non menziona Opuntia e l’edizione veneziana del 1568 non solo tratta della pianta, ma pubblica due splendide tavole: la prima mostra una pianta intera radicata all’interno di un recinto, la seconda illustra una pala portante sette “fichi” e il particolare di due frutti separati.

Sicuramente presente nei giardini fiorentini nella seconda metà del ’500, Agostino del Riccio, domenicano nel convento di Santa Maria Novella a Firenze lo attesta nel suo trattato “Agricoltura sperimentale” (circa 1592).
Negli anni ottanta del XVI secolo il fico d'India è presente in Germania e nei Paesi Bassi (Dodonaeus) e per la fine del secolo Gerard testimonia la sua presenza in Inghilterra.

Il fico d'India colpì molto presto l’immaginazione degli europei, soprattutto degli artisti, ricordo alcuni esempi: la presenza di un esemplare nel quadro “Il paese di cuccagna” (1567) di Brueghel il Vecchio; nella fontana dei fiumi (1648 – 1651) di piazza Navona di Gian Lorenzo Bernini, frutti e fusti di opunzia rappresentano il Rio de la Plata; senza dimenticare che la maggior parte degli erbari figurati, dalla seconda metà del XVI secolo, riportano una o più tavole di ficodindia, menzioniamo, fra tutte, quella che appare sull’”Iconographia plantarum” di Ulisse Aldrovandi.

Nel 1585, Castore Durante, nell’“Herbario Nuovo”, scrive: “Delle qualità e virtù di questa pianta non se ne sa ancora cosa vera e certa”; purtuttavia, ne consiglia l’uso esterno: “Applicare le foglie calde spaccate per mezo, giovano alle percosse del petto, e fanno ritornare al sesto loro costole piegate, per caduta, o per altre percosse. Mitigano ancora i dolori delle gionture”.

Nei tempi successivi, fino al XX secolo e sotto il profilo officinale, il ficodindia non fu particolarmente studiato e considerato dalla scienza ufficiale; qua e la compaiono alcune segnalazioni su testi di farmacologia, come curiosità e poco più. A titolo di esempio, riporto la segnalazione di un testo piuttosto noto e diffuso nel XIX secolo, “Farmacopea Italiana: Dizionario di Farmacia e Terapeutica” di Gallo e Morelli: “Fico d’India; Fico religioso – Si diede questo nome al Cactus opuntia L., perchè i suoi frutti, detti fichi di Spagna o di Barberia, hanno l’apparenza di un grosso fico e servono di alimento agli indigeni durante l’estate. Il fico d’India è spinoso e si coltiva ordinato in siepe per difendere le abitazioni rurali. I fichi di Barberia sono ricchi di materiali zuccherini e gommosi e sono adoperati dagli Arabi contro la diarrea e la dissenteria”.

E’, a mio avviso, molto interessante notare come, invece, la medicina popolare si impossessò rapidamente di una pianta come Opuntia giunta alle nostre latitudini in tempi relativamente recenti. In Sicilia, il patereccio, che si riteneva causato da sangue che in maggior quantità dell’ordinario, affluiva nel punto infiammato depositandosi, era fatto maturare applicando le pale scaldate al forno. I cladodi crudi, interi o ridotti in poltiglia erano applicati sulle contusioni e sulle ecchimosi, particolarmente se causate da cadute. Nelle cadute dagli alberi e specialmente dal noce si curavano le contusioni con succo di foglia di fichi d'India, o con chiocciole peste o con olio e cera o con artemisia, pesta anch’essa.

A questo proposito il medico Giuseppe Pitrè (1841-1916, il più grande studioso e raccoglitore delle tradizioni siciliane) riporta una prescrizione in versi di etnoiatria: Quannu unu s’allavanca di ‘nna nucia. / Sucu di pala vecchia, e babbaluci; / E si sècuta e ‘un ni resta cuntentu:/ Cci metti ogliu e cira e erva di ventu (Quando uno precipita giù da un noce; / (si deve adoperare) succo di pala vecchia di ficodindia; e se non migliora e non ne resta soddisfatto: / adoperi olio con cera ed artemisia).

Curioso questo modo, usato dai contadini, di liberarsi dalle spine di Opuntia confitte nei tessuti: prendevano un tafano e tenendolo leggermente stretto per l’addome, tra il pollice e l’indice, l’accostavano al sito interessato; l’insetto si attaccava così saldamente all’estremità della spina sporgente che, ritirando indietro dolcemente l’animaletto, questi sfilava il corpo estraneo dalla pelle, fungendo, praticamente, da pinzetta.

Le pale arrostite e spaccate si applicavano sull’addome per combattere le febbri malariche; in casi ostinati di recidive, si applicavano sulla milza.
Contro l’angina e la tonsillite si applicava al collo una pala contusa e abbrustolita.

Riporto questa tecnica di “medicina simpatica” applicata per ridurre la tumefazione della milza (spesso indotta da malaria): “Si spiccano con la mano sinistra le articolazioni del fico d’India, si appendono presso al focolare, e di mano in mano che queste disseccano, la milza si riduce allo stato naturale”.

Si prendeva una pala detta “vergine” (cioè che non abbia mai fatto frutti) liberata dalla cuticola, e si cospargeva di zucchero in polvere. Si conservava in luogo asciutto e in breve tempo si formava un essudato che sciogliendo lo zucchero formava una sorte di sciroppo, si raccoglieva questo liquido e si somministrava ai bimbi affetti da pertosse, alla dose di un cucchiaino da caffè ogni 2-3 ore.

Il decotto di fiori essiccati era bevuto, in notevole quantità, contro le coliche renali.
Nelle isole Eolie, l’infuso dei fiori era bevuto contro l’oliguria, l’acidità e il bruciore di stomaco.
In Sardegna i cladodi, privati dalle spine e spaccati, si mettevano a scaldare vicino al fuoco o direttamente sulle braci e, appena iniziavano a trasudare, si applicavano sulle parti malate, si curavano in questo modo escoriazioni, ferite infette, ustioni, piaghe purulente, foruncoli, ascessi e mal di denti.
Per il medesimo scopo, i cladodi, dopo aver asportato spine e cuticola, erano applicati direttamente a contatto con la zona interessata; si trattavano così anche gonfiori di varia natura.
Una pala senza frutto si faceva cuocere sotto la cenere, poi si apriva e si utilizzava la polpa in empiastro sulle slogature.
Contro gli effetti delle ubriacature e i bruciori di stomaco, si prendeva un infuso di fiori secchi.
Nel Salento (Puglia), il decotto dei fiori, addizionati di un fico secco, era bevuto contro il raffreddore, la preparazione doveva cuocere per almeno 2-3 ore a fuoco dolce.
Le pale, liberate dalle spine e dalla cuticola, infornate o riscaldate al fuoco, erano applicate sulle spalle dei malati di pleurite.
Con le stesse pale, bollite per ventiquattro ore in poca acqua, si preparava un cataplasma che serviva a ridurre la milza ingrossata.
In Calabria, il decotto dei fiori freschi era consumato come diuretico antinfiammatorio.
Le pale, decorticate, e schiacciate o ridotte in poltiglia, erano applicate sulle emorroidi.
Cotti sotto la cenere i cladodi erano usati, come impacco, per promuovere la suppurazione degli ascessi e negli ingorghi mammari.

PROPRIETA’ E IMPIEGHI DEL FICO D'INDIA

Del fico d’India s’impiegano: i cladodi, i fiori e i frutti.
Le pale si raccolgono tutto l’anno, ma soprattutto in primavera.
La droga contiene: mucillagini, pectine, gomme, lignani, cellulose, emicellulose, β-carotene, luteina, α-criptoxantina, glucosio, fruttosio, arabinosio, ramnosio, xilosio, galattosio, vitamina B1, vitamina B2, vitamina B3, vitamina C, calcio, magnesio, potassio, silicio, ferro, manganese, acido galatturonico, acido malico, acido tartarico, aminoacidi, tannini.
La frazione polisaccaridica presente è costituita prevalentemente da un polimero di galattosio, arabinosio e altri zuccheri chiamato opuntiamannano (o opunziamannano).
Da tempo, dei cladodi si usa il succo, all’interno come depurativo epatico, e all’esterno, spalmato sulla cute arida o grassa per reidratarla e purificarla.
Dal 1980 gli studi su Opunzia, inizialmente grazie a studiosi messicani, hanno visto una notevole “impennata” d’interesse; con un conseguente ampio allargamento dello spettro terapeutico della droga.
In particolare è stata dimostrata non solo l’attività ipoglicemizzante del ficodindia, ma anche la positiva influenza su altri disturbi metabolici, quali le iperlipidemie e l’obesità.
La polpa disidratata delle pale è risultata possedere la massima attività grazie alla forte concentrazione (50%) di frazione polisaccaridica costituita prevalentemente da opuntiamannano, al quale si deve la capacità di legare i grassi e gli zuccheri ingeriti, che diventano pertanto insolubili e quindi eliminati tal quali.
L’opuntiamannano è in grado di adsorbire, nel lume intestinale, anche le tossine, impedendone di fatto l’assorbimento.
Prove sperimentali dimostrano che la glicemia diminuisce entro 2-6 ore dall’assunzione.
In uno studio in doppio cieco l’azione ipoglicemizzante associata alla somministrazione di un estratto di pale si è rivelata maggiormente efficace nell’attenuazione dell’iperglicemia postprandiale dei soggetti sani che nella riduzione della glicemia da digiuno nei soggetti diabetici.
In particolare nei soggetti sani, il picco serico del glucosio, misurato dopo la somministrazione di una dose di glucosio di 75 g, è risultato inferiore di 20,3 ± 18,2 mg/dl rispetto al gruppo di controllo.
Un’ulteriore sperimentazione che ha coinvolto pazienti affetti da diabete non insulino dipendente, ha testato l’efficacia di preparazioni di pale di ficodindia in termini di abbassamento della glicemia.
Dai risultati ottenuti, è emersa un’evidente azione ipoglicemizzante rispetto al gruppo di controllo.
L’opuntiamannano, unitamente alle altre sostanze di natura pectica esplica anche effetto saziante.
Le mucillagini presenti abbondantemente nella droga sono in grado di controllare l’eccessiva acidità gastrica e, contemporaneamente, di regolarizzare il transito intestinale, con un’azione blandamente lassativa.
L’alta concentrazione di sali (20%) può spiegare l’uso tradizionale in Messico come diuretico, drenante e tonico cardiaco.
Uno studio di ricercatori dell’Università di Catania (2010) ha evidenziato un’importante capacità protettiva e riparativa sulle mucose di una miscela formata da estratti di cladodi di Opuntia ficus-indica e di foglie di Olea europaea.
La mucillagine di pale del nopal ha mostrato una notevole capacità protettiva e riparativa sui danni gastrici (gastrite e ulcera) provocati dall’assunzione di etanolo.
Esistono evidenze cliniche dimostranti un’azione antitossica di opunzia, sugli effetti tossici dell’alcol, in particolare con riduzione dell’anoressia, della nausea, e della secchezza delle fauci.
Estratti di cladodi hanno mostrato di possedere azione antivirale nei confronti di Herpes simplex, del virus respiratorio sinciziale e dell’HIV.
Come si può vedere, gli studi su questa interessante pianta officinale sono in pieno sviluppo e porteranno, certamente, nuove indicazioni terapeutiche, fino ad ora le sono riconosciute proprietà antinfiammatorie, depurative epatiche, digestive, ipoglicemizzanti, antiacide, sazianti, drenanti, diuretiche, blandamente lassative
I fiori si raccolgono da giugno a luglio e si essiccano rapidamente all’ombra.
Ancora poco studiati sotto il profilo fitochimico, contengono flavonoidi.
Sono loro riconosciute proprietà diuretiche, antilitiasi e antipertrofia prostatica.
Interessante lo studio effettuato da ricercatori italiani, dell’Università di Camerino (1996), circa l’azione dell’infuso a bassa concentrazione (1-2,5%) dei fiori, che ha evidenziato la natriuresi e la kaliuresi indotte dalla somministrazione del preparato, confermando così (come sempre più spesso avviene) l’uso tradizionale siciliano (decotto dei fiori al 3%).
I frutti si raccolgono da luglio a ottobre.
I frutti freschi, per 100 g di parte edibile, contengono, in media: acqua 86,40 g; proteine 1,00 g; carboidrati disponibili 7,10 g; fibre 5 g; acidi organici 0,09 g; minerali 0,30 g.
Più in particolare: potassio 90,00 mg; calcio 28,00 mg; ferro 300 μg; fosforo 27,00 mg; retinolo 9,17 μg; carotenoidi 61,00 μg; β-carotene 49,00 μg; criptoxantina 12,00 μg; vitamina B1 18,00 μg; vitamina B2 30,00 μg; nicotinamide 380 μg; vitamina C 23,00 mg; acido malico 23,00 mg; acido citrico 62,00 mg; acido chinico 19,00 mg; acido shikimico 3 mg; glucosio 6,50 g; fruttosio 600,00 mg; fibre idrosolubili 130,00 mg; fibre insolubili 4,87 g.
Il valore energetico, per 100 g di parte edibile di frutto fresco è 36,26 kcal (153,61 kjoule).
Oltre al valore nutritivo, ai frutti sono riconosciute proprietà leggermente diuretiche e disinfettanti urinarie.
Studi nutrizionistici hanno indicato che i frutti di opunzia presentano proprietà antiossidanti, probabilmente dovuti alla presenza di alcuni pigmenti e di notevoli quantità di vitamina C.
In Spagna e nelle isole Baleari s’impiega l’infuso dei petali come antidiarroico, antiemorragico e per il trattamento delle affezioni prostatiche.
Il cataplasma delle pale scaldate e aperte, talvolta anche ridotte in poltiglia, è applicato sulle parti infiammate e doloranti.
Sull’isola di Creta, ove la pianta fu portata dai Veneziani, l’infuso dei fiori è usato come astringente intestinale, antidissenterico; le pale ridotte in poltiglia sono spalmate sulle ustioni e sulle eruzioni cutanee.
A Cipro, il decotto della miscela di frutti e cladodi è sorbito come diuretico, antispastico ed emolliente interno.
Le pale, preparate in cataplasma, sono applicate sulle parti doloranti a causa di traumi o dolori reumatici.
Nell’arcipelago delle Canarie l’infuso di frutto fresco o essiccato al sole, è bevuto come antidiarroico, febbrifugo e bechico.
L’infuso dei fiori è impiegato come bechico e diuretico.
Le pale intere o ridotte in poltiglia sono applicate, in cataplasma, sulle infiammazioni in genere, come pettorale per fluidificare il catarro e calmare la tosse, e contro l’erisipela.
Con le stesse indicazioni s’impiegano le specie simili: Opuntia dillenii (Ker.-Gawl.) e Opuntia tomentosa Salm-Dyck.
La specie Opuntia monacantha (Wiild.) Haw. è naturalizzata in India e nelle regioni himalayane.
In Nepal, s’impiegano i frutti (freschi o in infuso) come blando lassativo e contro la gonorrea, come emolliente; il latice gemuto dai fusti come lassativo, e le pale in cataplasma emolliente, antinfiammatorio.
La specie Opuntia dillenii (Ker.-Gawl.) si è diffusa, nel XVII secolo, anche in India.
L’infuso dei frutti si beve contro la gonorrea.
Cotti al forno, i frutti sono usati contro la pertosse, per incrementare la secrezione di bile, per aiutare a espettorare e per controllare ogni forma di tosse spasmodica.
Il decotto addensato delle pale è spalmato sulle parti infiammate, le pale intere riscaldate sono applicate sulle ustioni, sulle piaghe e sugli ascessi per accelerarne la maturazione.
La poltiglia dei fusti è impiegata anche per guarire gli ascessi prodotti dalla dracunculiasi (parassitosi sottocutanea provocata da Dracunculus medinensis detto anche verme di Guinea o filaria di Medina) e nel trattamento locale dell’oftalmia.
Nella regione del Siddha le pale e i frutti sono usati per il trattamento interno della tosse, della leucorrea, della costipazione e negli avvelenamenti.

AVVERTENZE

Non sono note controindicazioni o effetti collaterali, salvo rarissimi casi di diarrea, nausea e meteorismo in individui predisposti.
Mancando studi approfonditi in questo senso, si consiglia di evitarne, per motivi prudenziali, l’assunzione in gravidanza e in allattamento.
Come per tutti i rimedi assorbenti si raccomanda di non assumere contemporaneamente farmaci o altri preparati medicamentosi, per evitare il sequestro dei principi attivi.

ALCUNE PREPARAZIONI

Uso interno

Succo (cladodi): 3-6 cucchiaini al dì, come digestivo e depurativo epatico in tutte le affezioni del fegato.
Infuso (fiori) 1-2,5%: 3-5 bicchieri al dì, come diuretico, natriurico, kaliurico, contro i calcoli renali e vescicali, per ridurre l’ipertrofia prostatica.
Decotto (fiori) 3%: 3-5 bicchieri al dì, idem.
Estratto secco (cladodi): capsule da 500 mg, 2-3 volte al dì, dopo i pasti, nelle iperglicemie, nelle ipercolesterolemie, nel trattamento dell’obesità; capsule da 500 mg, 2-3 volte al dì 30 minuti prima dei pasti, per aumentare il senso di sazietà nel trattamento dell’obesità; in entrambi i casi nella gastrite e nell’ulcera, nella stipsi abituale, nell’irritabilità intestinale. 1-2 capsule al bisogno, più volte al dì, contro l’iperacidità gastrica.
Polvere (cladodi): capsule da 1-2 g, 2-3 volte al dì, idem.
Polpa fresca (cladodi): 250 g, due volte al dì, lontano dai pasti, idem.

Uso esterno

Succo (cladodi): spalmato e massaggiato sulle pelli aride o grasse, come reidratante e purificante;
impacchi, più volte al dì, su ferite ed escoriazioni.
Polpa fresca (cladodi): in impacco, più volte al dì, idem.
Categorie correlate:

Fitoterapia ed erbe officinali




Gabriele Peroni
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